Sindrome della Tana:
quando il ritorno alla normalità fa paura

Alzi la mano chi, nelle ultime settimane di questa strana primavera, non si è mai trovato coinvolto in scambi come: “Vieni a cena da noi? No, grazie, non me la sento”; oppure: “Ti va di fare una passeggiata? Mmmm, no, non ne ho voglia, magari un’altra volta.” Insomma, si faccia avanti chi non si è trovato dalla parte di chi ha spinto per tornare a fare qualcosa insieme ad altre persone, o di chi ha tirato il freno con risposte evasive, se non decisamente respingenti.

Ma perché? In che cosa siamo cambiati in questi mesi di pandemia? Il Covid-19, oltre al drammatico vissuto da un punto di vista sanitario, ci sta lasciando in eredità anche conseguenze legate al lungo periodo di “clausura” a cui siamo stati sottoposti.

Per molti si tratta della “sindrome della Tana”, un misto di apatia, paura e ansia che sopraggiunge al pensiero di uscire di casa per ributtarsi nella mischia e affrontare nuovamente la quotidianità perduta. Il motivo è solo in parte la paura del contagio da Covid-19.

Dopo un lungo periodo di clausura forzata si vive una condizione che fa registrare due atteggiamenti antitetici: da una parte chi reagisce al trauma con la smania di uscire, fare, incontrare, chiacchierare, respirare nuovamente quel che aveva dovuto abbandonare in maniera forzata; dall’altra chi invece si chiude con atteggiamento depressivo, vivendo come sicure solo le mura di casa.

La tana attrae chiunque, indipendentemente dalla fascia d’età e dalla classe sociale. Adolescenti che restano in casa continuando a mantenere i rapporti con i coetanei in maniera virtuale; professionisti che si aggrappano all’efficacia dello smart working per evitare un ritorno alle code in auto e alla vita in ufficio; individui, persone, che si concedono solo l’uscita per fare la spesa perché hanno imparato a considerare superfluo tutto il resto, per potersi godere la loro comfort zone, ovvero la casa, che diventa così la loro tana, il loro rifugio.

Rifugio che, non potendo fare altro, abbiamo provveduto a curare, pulire, riordinare quotidianamente, che abbiamo fatto in modo di sentire più nostro e da cui ora non riusciamo ad allontanarci. Rifugio che diventa soprattutto un luogo dell’anima, il posto in cui più ci sentiamo a nostro agio e dove ci sentiamo più forti poiché riusciamo a tenere distanti stress e ansia. Un luogo che, sostanzialmente, ci fa stare comodi e sentire sicuri.

Come nel racconto di Kafka “La tana”, in cui un roditore-architetto passa la sua vita a perfezionare la propria dimora (tana), uscendovi solo per procurarsi il cibo e cercando in essa riparo da nemici invisibili, così oggi si parla della sindrome della tana per chi fatica ad uscire dalla propria abitazione e riprendere la vita sociale di prima.

LA FINESTRA DI TOLLERANZA

Ma la tana non è un posto sicuro per tutti. Fisiologicamente il cervello reagisce allo stress mettendo in atto, per difendersi, due meccanismi: l’attacco e la fuga. In condizioni normali tutti noi siamo abituati a vivere le emozioni all’interno di una finestra di tolleranza che ci consente di gestire in maniera ottimale i nostri stati emotivi. In situazioni di elevato stress, invece, i perimetri delle finestre di tolleranza di ognuno di noi emergono in maniera netta, portandoci a reazioni di tipo differente. Uscendo da tali perimetri scatta infatti la necessità di difendersi e il nostro cervello reagisce con comportamenti di attacco, oppure di fuga: ci arrabbiamo più facilmente, aggredendo i nostri cari con i quali non siamo abituati ad una convivenza così prolungata, oppure fuggiamo, chiudendoci fisicamente in una stanza o isolandoci virtualmente nei social o nei videogiochi.

La tana può diventare un luogo ancora più scomodo e difficile per quelle persone che al suo interno vivevano già situazioni conflittuali, con il rischio di un aumento delle violenze domestiche.

OLTRE ALLA TANA

I disagi legati ai periodi di quarantena sono una novità per noi, cittadini europei del 2020, ma non sono certamente una cosa inedita sia storicamente, sia nel panorama mondiale. In seguito all’epidemia di Sars che nel 2002 colpì principalmente l’estremo oriente e il Canada, sono stati realizzati diversi studi che hanno mostrato come la quarantena abbia influito negativamente anche su chi non aveva contratto il virus. Le principali manifestazioni del disagio da isolamento da parte di chi ha vissuto la quarantena sono state paura (20%), nervosismo (18%) e tristezza (18%). Molto significative sono stati i dati legati all’evitamento sociale settimane dopo la fine della quarantena: il 54% evita persone con tosse o raffreddore; il 26% i posti chiusi o affollati, mentre il 21% ogni luogo pubblico.

(Fonti: Lancet, ISS, OMS)

Redazione Benvita
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